Ripenso ai miei due anni da dottorando in matematica, qui a Pavia. La ricerca è effettivamente un mestiere, e come tale si impara. Non è stato affatto banale. Il primo anno si procedeva spinti dall’entusiasmo, un po’ alla garibaldina; qualche risultato è anche uscito subito, ma poi si è passato tempo a leggere articoli astrusi, a fare pratica con il linguaggio degli oggetti studiati, senza concludere granché. Poi, idee vaghe che lì per lì sembravano chissà cosa, ma facevano solo perdere tempo. Con pazienza, si è imparato a volare sempre bassi, pure conservando la capacità di guardare in alto quando serve. Quest’ultima metafora, probabilmente, riassume la principale lezione di questi mesi di attività, assimilata dopo molto tempo e molti errori. Il problema che ho studiato, effettivamente, si è rivelato – nonostante le prime apparenze – piuttosto difficile, probabilmente al di là della mia portata. Qualcosa di interessante si è ottenuto, ma proprio ora che mi sento un ricercatore ben più maturo e capace, mi rendo conto che ho solo un anno davanti a me prima di concludere, e tuttora nulla di ultimato.
Ciò che ho almeno ho guadagnato, in questi ultimi mesi, è stata una rinnovata motivazione per il mio lavoro. Ora, so dire perché la matematica è la mia attività di elezione. So spiegare perché è importante per l’umanità, e perché è bella. Raggiungere tale consapevolezza ha avuto un costo; la mia speranza è che nei mesi a venire essa possa concretizzarsi in prodotti compiuti e tangibili. Anche questo, ovviamente, richiederà una certa fatica.